Amleto+Die Fortinbrasmaschine

Amleto è il protagonista di un dramma alle prese con l’impossibilità di rappresentare: «Essere, o non essere, questo è il problema […]?».È il testo esemplare che rivela la natura autoriflessiva del teatro, ovvero la capacità che il teatro può avere di rivolgersi a se stesso per interrogarsi sulla sua funzione. Amleto è l’emblema dell’artista cosciente della propria inadeguatezza rispetto al ruolo assegnatogli, sclerotizzato dalle infinite repliche dello stesso copione da cui cerca la fuga per diventare artefice degli eventi teatrali.

Per queste ragioni il testo ha prodotto nel tempo riscritture di riscritture: tra le più celebri quelle di Jules Laforgue, a cui si dedicherà Carmelo Bene che a riguardo dichiarò: «L’Amleto sarà l’accompagnamento funebre di tutta la mi vita», e Die Hamletmaschine di Heiner Müller, opera nata in margine a una traduzione della tragedia di Shakespeare che il drammaturgo definì una volta «ein Schrumpfkopf», una di quelle teste-trofeo che i popoli primitivi ricavano dal teschio del nemico. Una partitura di frammenti che diventa un enigmatico viaggio tra fantasmi personali e collettivi.

Ora Roberto Latini con Amleto + Die Fortinbrasmaschine (in scena al teatro Elfo Puccini di Milano dal 4 all’8 aprile) tenta una scrittura scenica liberamente ispirata all’architettura del testo di Müller per ritornare a Shakespeare, ad Amleto, con gli occhi di Fortebraccio. Chi è Fortebraccio? Non lo sappiamo con esattezza, Shakespeare  non ce lo dice; nel testo la sua figura è appena abbozzata: non appare in scena che due volte; la seconda nel finale, a ordinare che portino via il cadavere di Amleto. È da lì che Latini vuole ripartire, perché, come sosteneva Müller, «il dialogo con i morti non deve interrompersi fino a che non ci consegnano la parte di futuro che è stata sepolta con loro».